foto di Emma Graziani
Questo testo è esito del Laboratorio di giornalismo culturale e storytelling organizzato da Altre Velocità per il festival Ammutinamenti 2025. Per la Vetrina della giovane danza d’autore, i partecipanti si cimentano nella descrizione degli spettacoli sotto forma di brevi cartoline quotidiane. Quello che segue è il racconto del secondo giorno (12 settembre 2025).
Walt e l’arte di volare di Gruppo Ibrido

Finalmente un po’ di leggerezza. È proprio quella che ci vuole per provare a volare. Gruppo Ibrido porta in scena la prova aperta di Walt e l’arte di volare, coreografia di e con Davide Tagliavini, all’interno delle Artificerie Almagià. Walt è un ragazzo di 13 anni che, vestito del suo pigiama colorato e avvolto dalla sua coperta, trasporta il pubblico nel suo mondo onirico. Walt sogna di volare, desiderio comune a tutti noi spettatori, adulti e bambini, che seguiamo ben volentieri i suoi tentativi di volo usando sia gli strumenti in scena – a cominciare dalle ali di piume, o il saltarello con il quale il ragazzo prova a darsi spinte verso l’alto – sia proiettandoli su un fondale cinematografico, dove gli eroi di Walt hanno realizzato il loro sogno. Scorrono sullo schermo riferimenti a La storia infinita, a Bastian Balthasar Bux, o ad Harry Potter, che sfreccia sulla scopa volante giocando a quidditch. Non importa che Walt viva in un luogo dove una sorta di “dittatore della città“ – come lo definisce un bambino del pubblico – pretende di vietare ogni forma di svago e di socialità (andare a scuola o mangiare pizza con patatine fritte è vietato); a Walt importa solo la propria perseveranza. Nonostante per tutta la durata della performance Walt rimanga con i piedi per terra importa però che per 20 minuti il pubblico abbia provato quel desiderio di volare con lui. La danza, con i suoi meravigliosi salti – grand jeté – forse potrebbe dare una mano a Walt a volare più in alto: perché la danza lo fa. Speriamo che impari a usarli nei suoi prossimi tentativi e che possa farci volare con lui.
Gherminella_studio di voci inarticolate di e con Miranda Secondari

In Gherminella_studio di voci inarticolate, Miranda Secondari, la sua interprete-autrice ne combina delle belle, ma non verso gli altri, verso il fuori. Al contrario, la sua è una birichinata – questo il significato del titolo – entropica; uno scherzo dei tendini e degli organi interni, piuttosto che dell’epidermide. La voce non è né urlata, ma neanche sussurrata; è piuttosto sembianza di una danza implosa, fatta di calibrati cambi di posture. In questo senso, risulta anche essere una dichiarazione d’affetto per la coreografa belga Yasmine Hugonnet, colei che dell’attesa e della dilatazione temporale ha fatto la sua pratica e la sua firma.
Due momenti scandiscono l’azione scenica. Il primo, diurno, con la scena nuda schiarita da un immobile piazzato di luce fredda. Sul palcoscenico sbucano da sinistra la schiena vestita d’organza dorata e la testa con la treccia della performer; mentre le gambe sono ancora nascoste dietro le quinte. Da questa posizione, Secondari srotola la colonna vertebrale sul pavimento e vi si adagia con le braccia che vanno verso l’alto: l’energia passa prima dagli omeri, attraversando il gomito, l’ulna e il radio e così via, fino ad arrivare a falangine e falangette, le quali, ora, dopo alcuni istanti, dondolano lentamente, come nel risveglio da un intorpidimento. Si stabilisce qui la dinamica: Secondari si sposta nello spazio, si stringe le guance con i polpastrelli mentre, condotto tutto il braccio dietro la schiena, lo fa uscire dall’altra parte e schiocca le dita. Oppure si slega i capelli accovacciata, nascondendo il viso e permettendo, in una quasi perenne moviola, di ammirarne il volume, come se non fossero i suoi, ma quelli di qualcun altro, di una bambola. L’atmosfera cambia con il crepuscolo: ora si fa buio e timidi fari illuminano a mala pena la scena da dietro una delle quinte e dal retropalco oltre il fondale, che Secondari ha scostato, permettendo l’afflusso del bagliore. In questo nuovo panorama, viene riproposto ancora il gioco di immagini innescate dall’interno, ma fatte per essere guardate da fuori, al quale si è ormai abituati. Una variazione, invece, è data nell’interazione con gli oggetti che ora compaiono in scena; come nel caso di quella pallina che, rimbalzando davanti alla performer, la costringe, nell’intento di recuperarla, a lasciare l’oscurità ed essere toccata dai tagli di luce, formalizzanti un palcoscenico costruito solo di assenze. Brusii, ticchettii, silenzi mancati a firma di Nicola Ratti sono una guida sonora in questo viaggio a doppia velocità: quella di Achille e quella della tartaruga – rispettivamente simbolo della velocità alla quale guarda il pubblico e di quella con la quale la performer vive le proprie azioni dall’interno. Eppure, in conclusione, i due personaggi del paradosso, fulmine e lumaca, si ritrovano nello stesso punto, dove la performer si inchina davanti al pubblico del Teatro Rasi che la applaude, forse non abbastanza intensamente.
En retrait (primo studio) di e con Laura Simonet

En retrait (primo studio) vede Laura Simonet, alla sinistra del palco, sdraiata sopra una cassa: il corpo è disteso fino a poco prima delle spalle le quali, invece, insieme al collo e alla testa, pendono fuoriuscendo dal parallelepipedo grigio, che ricorda una bara chiusa. La parte superiore del busto è dunque cadente, mentre le mani stringono un libro aperto. Questo incipit, degno della Morte di Marat di Jacques-Louis David potrebbe essere un fermo immagine sia di qualcosa che è già accaduto, che di qualcosa che sta accadendo ora. La performer, infatti, approfondisce sempre più la posa nella quale si trova, impiega circa venti minuti per scivolare del tutto al suolo e con un ribaltamento, alzarsi in piedi, dopo aver fatto leva sulle piante dei piedi. Compie, dunque, una capriola all’indietro che la porta ad una nuova staticità eretta. Ora non resta molto da fare, dopo aver inglobato tra il diaframma e lo stomaco, il suo libello, lo adagia al suolo e nell’atmosfera musicale quieta e quasi arabesca curata da Giulio Nocera, si incammina statutariamente in una processione fuori dalla porta laterale delle Artificiere Almagià. Sono gli istanti antecedenti ad una morte vissuti a ritroso quelli a cui assistiamo? Confidiamo sarà possibile rispondere o riformulare la domanda insieme agli sviluppi di questo primo studio.
SEX.EXE di Pablo Ezequiel Rizzo/Voluptas

Alessandra Cozzi, Elena della Manna ed Eleonora Gambini sono tre figure dai corpi e dalle movenze geroglifiche impegnate in quello che sembrerebbe un arcaico rito di sacrificio umano all’interno di un matrix. Una sovrapposizione tra codici antichi e moderni che condividono il corpo come punto di partenza. Resta impresso l’uso delle luci di scena di rimando all’ immaginario cyberfemminista. Luci che sovrascrivono l’identità della performance accostando le nuove gerarchie funzionali e tecnologiche alle antiche piramidi sociali, per esplorare il tema dell’intersezionalità nella molteplicità delle forme.
VIDAVÈ company // Coraggio. La sfortuna non esiste

Matteo Vignali e Noemi dalla Vecchia sono due facce della stessa medaglia che inseguono una terza presenza sul palco, vestita di luci. I due performer invano confliggono, invano collaborano, nulla sembra bastare per mantenere quella luce puntata su di loro. Non importa il come o il quanto, la luce sfugge dal controllo dei due spogli, vestiti solo di un morbido pantalone nero che richiama il colore del sipario, in una scenografia minimalista, quasi onirica e surreale. Una coreografia ricca di movimento che allo stesso tempo esplora l’impotenza umana tra concetti effimeri quali fortuna e sfortuna, ma anche la resilienza e lo spirito di adattamento umano, restituendo nel finale una riflessione sul coraggio di lasciare ciò che fino a quel momento si riteneva indispensabile e che racconta la complessità della psiche umana.
foto di Emma Graziani; testi a cura di Matteo Merogno, Ausilia Palmiteri, Matteo Rossini