Gemma Hansson Carbone, “Il vangelo di Cassandra” (foto di Emma Graziani)
Questo testo è esito del Laboratorio di giornalismo culturale e storytelling organizzato da Altre Velocità per il festival Ammutinamenti 2025.
Geometrie del cambiamento
Il 9 settembre, all’Almagià di Ravenna, per il festival Ammutinamenti è andato in scena Il vangelo di Cassandra, anteprima del nuovo lavoro di Gemma Hansson Carbone. Al centro la performer, in piedi, sorride inquieta avvolta da un vestito di luce calda che si espande sul pavimento. Alle sue spalle un cerchio di luce che evoca la luna piena. Intorno a lei, su cuscini tondi, il pubblico si immerge in una coltre di fumo che lentamente si impossessa della sala. Un altro cerchio, l’unico in movimento, l’occhio di bue che si rifrange sulle parole in greco incise su quattro specchi circolari posti alla destra della performer. Questi i punti cardinali della scena preparata da Alessandro Panzavolta per la performer e regista italo-svedese, che reinterpreta l’omonimo testo del 1978 dell’autore greco Dimitris Dimitriadis.
È la geometria della performance a catturare per prima lo sguardo. La stessa geometria che viene ripresa dalle tre voci nella testa di Cassandra e la sua – la quarta – così come dal movimento coreografato da Gloria Dorliguzzo, che incolla i piedi della performer al pavimento mentre questa, profetizzando, si sbilancia ora a destra ora a sinistra. Carbone traccia coi suoi movimenti improvvisi dei longilinei triangoli composti dall’obliquità del corpo teso come una corda, dall’orizzontale linea del pavimento e dai lunghi capelli morbidi e mossi che cadono perpendicolari.
Geometrico è anche il monologo, capace di terraformare il nuovo mondo profetizzato dalla Cassandra -molto diversa dal mito classico – immaginata da Demitriadis, che sentì il bisogno di ribaltare il canone classico per rappresentare il rovesciamento che stava avvenendo nel suo paese: dalla dittatura, dal no categorico imposto dall’autorità, all’euforia del tutto è possibile, al dopo dei sì («sia quel che sia, tanto è finita»). Un invito dunque al desiderio assoluto come motore sacro dell’umano, un invito all’amore carnale e viscerale, un amore che si riconosce, si accetta, si perdona e si libera dalle sue catene, persino dalla sua storia. La Cassandra di Carbone non è più vittima del rifiutato ma è padrona di un desiderio più grande di lei, «il desiderio senza nulla».
Una performance teatrale che divide soprattutto sul finale: ci si può lasciar guidare dalla metamorfosi del mondo e poi godere della liberazione del corpo, ora nudo e vulnerabile, ora vorticante e libero di Cassandra; oppure ci si fa distrarre dalla luce pulsante e accecante, dal suono dirompente della musica, non riuscendo più a vedere e sentire altro.
Non c’è da stupirsi. Ogni movimento sociale, ogni grande trasformazione (guardiamoci attorno) produce un chiasso tale da pretendere tanta attenzione quanta sopportazione. Qualsiasi cosa rompa, poi sparge detriti abbaglianti di incertezza; e così la distruzione della civiltà altro non è che il chiassoso pianto della neonata umanità liberata. Un suggerimento udibile solo da chi, nel caos del tutto che cambia, riesce a ritrovarsi in sé stesso come Cassandra, per poi tornare al mondo lasciandosi alle spalle le tracce della sua gabbia – il vestito dell’inizio – ma anche quelle del desiderio, rappresentate dall’intimo rosso della performer abbandonato sul palco, che sopravvive alla scena e si fa grammatica del movimento, punto d’arrivo e di partenza dell’umano, come la frase più volte ripetuta dalla Carbone per rilanciare il monologo: «Rose cristalline di porpora scarlatta versate dal sangue di una vergine».
Matteo Rossini

Una Cassandra ribaltata
Sostiamo sotto il portico nello spazio antistante le Arteficerie Almagiá, in attesa di entrare per assistere allo spettacolo. Il luogo è suggestivo, piove, le gocce muovono piccole pozze d’acqua che luccicano sotto i filari delle lampadine che delimitano il perimetro esterno. Sta per andare in scena Il vangelo di Cassandra, scritto dall’autore greco Dimitris Dimitriadis e interpretato dalla performer italo-svedese Gemma Hansson Carbone.
Quando entriamo dentro le Arteficierie, Cassandra è già in scena. Oscilla lentamente come sospinta da una brezza leggera, avvolta da un velo di nebbia. Indossa un abito bianco con un larghissimo strascico circolare che ricopre quasi tutto il proscenio, sul quale sono appoggiati alcuni cuscini dove siede una parte del pubblico. L’abito è scenografia, così come la grande e abbagliante luna piena che vigila su Cassandra a cui lupi lontani ululano. Un fascio di luce bianca si muove e disegna una circonferenza infinita nel suo scandagliare perpetuo della scena; intercetta alcuni grafemi in greco. In uno di essi mi pare di leggere “ego”. Penso che sia l’ego di Cassandra, ma forse è solo una supposizione.
La Cassandra interpretata da Carbone ha accolto l’amore di Apollo e ne è divenuta l’amante. Ribaltando il suo ruolo mitico di profeta di sventura, è portatrice di rinascita a nuovo desiderio. Per un’ora un flusso di parole attraversa il suo corpo, vere protagoniste in un racconto in circolare e ossessivo, un salmodiare, sostenute dal corpo che traccia traiettorie in tutte le direzioni stando saldamente ancorato nello stesso punto.
L’abito ancorato pesantemente al pavimento contraddice la leggerezza impalpabile del costume; il corpo legato e trattenuto non accenna mai neanche a un piccolissimo saltello, mentre la recitazione, di contro, è incessante e sfinente, quasi dionisiaca. Quando le parole finiscono, il corpo esausto si libera del costume di scena, ma non è la crisalide che diventa farfalla. Le luci si spengono, la luna tramonta e tutto si fa buio.
Ausilia Palmiteri