Francesco Marilungo, “Cani lunari” (foto di Emma Graziani)
Questo testo è esito del Laboratorio di giornalismo culturale e storytelling organizzato da Altre Velocità per il festival Ammutinamenti 2025.
Francesco Marilungo lo sa che quella tra l’uomo e le streghe è una lotta impari; infatti gioca d’astuzia, ci ironizza sopra: le sue streghe ridono. Sono quattro personalissime danzatrici-novizie (Barbara Novati, Roberta Racis, Alice Raffaelli e Francesca Linnea Ugolini) guidate da una quinta, la loro profetessa Vera Di Lecce, che oltre a essere in scena è loro guida per la voce, il suono, il brusio, il vernacolo.
All’inizio di Cani lunari le quattro performer sono già coinvolte in una loro adunanza, mentre gli spettatori entrano a scena aperta. Chiacchierano a coppie, si scambiano confidenze e hanno sulla bocca quel riso furbesco, tipico di chi ha visto l’aldilà e ora si concede il lusso di sdrammatizzare sulla banalità dell’aldiquà. Biancovestite dal gruppo Lessico Familiare – sempre più in auge sulla scena milanese – si trastullano in camicie da notte orlate di pizzi, dismesse della loro essenzialità, duplicate, riassemblate; attendendo la loro madre, che entra in scena da destra incedendo lentamente, candida apparizione con un corvo imbalsamato appollaiato sul braccio.
Queste streghe-fanciulle sono, nei colori e nelle intenzioni, dei cani lunari – una delle sembianze che gli spiriti possono assumere per far visita all’uomo, come raccontano le donne calabresi di Civita nel cortometraggio-intervista ideato e diretto da Marilungo stesso, visionabile a fine spettacolo. Il pericolo retorico delle streghe di carnevale con il cappello di plastica nera, oppure delle negromanti violente e sanguinarie, estrinsecazione artistica dark del dolore dell’artista è scongiurato. Il quadrato nero delimitato solo sul proscenio da un’apotropaica striscia di sale e con l’angolo destro anteriore occupato da pc, strumenti musicali e oggetti sonori, accoglie degnamente il sabba.
L’inizio
Già nel riso iniziale, quando sono tutte sedute o accovacciate (immaginate delle bambine), le loro piante dei piedi sono vive, reagiscono alla pressione del suolo, così come i palmi delle mani; la postura è attiva e i muscoli sono pronti a scattare. È talmente palpabile che alcune di loro, a turno, invece di rispondere alle altre con i bisbigli propongono brevi danze estatiche, approfondimento sussultante di un’iniziale oscillazione della testa e dei capelli. Inscenano dinamici stati di trance per poi ricomporsi velocemente e ridere ancora, come a prendersi gioco di tutti coloro che conservano una visione limitata del loro potere, quasi a dire «è davvero solo così che ci immaginate?».

Sguardo e trance
In sottofondo c’è Sweets Dreams degli Eurythmics, che Di Lecce estremizza con la voce e dilata nei tempi, diventando una ninna nanna per calarsi nel dormiveglia della coscienza, condizione inaugurale di tutto ciò che verrà. Da una parte c’è infatti lo stato di trance delle performer, quello che Marilungo, avido lettore dichiarato di Michelet, De Martino e Ginzburg, sa essere il medium con il quale le streghe si abbandonano al loro potere. È la ricerca di uno stato psico-fisico, incoraggiato dall’assunzione di erbe allucinogene, per credere al proprio sé magico. Dall’altra, però, c’è anche la trance di noi spettatori, che giochiamo il ruolo di quegli uomini che, nel corso delle carestie dell’Età Moderna, una volta estinto tutto il grano, mangiavano pani cucinati di fortuna con quello che si trovava: segale, funghi sminuzzati, altre farine di dubbia produzione. Quel pane conteneva inconsapevolmente ingredienti psicotropi che conducevano gli uomini ad avere allucinazioni, convinti di vedere oggetti e persone levarsi da terra. Sorse così, nello sguardo degli uomini, il volo delle donne. È questo uno dei punti di partenza dell’analisi di alto rilievo filosofico a cui si è dedicato Federico Pastore nel suo saggio La fabbrica delle streghe. Qui, antropologia e patto teatrale si fondono in un doppio inganno: quello auto-esercitato dalle streghe-performer per dare verità a se stesse e quello del pubblico per poter credere a ciò che vede.

Il corvo
La riunione magica procede quando il gruppo segue l’esempio della profetessa e si connette al proprio potere attraverso il corvo impagliato, animale guida e spirito tenuto sulla testa, tra le dita o sul dorso della mano; mentre lei, in un bosco elettronico di suoni notturni e rapaci (le luci si sono abbassate), comincia a liberare qualche vocale nel microfono. La danza dell’uccellaccio nero, un altro di quegli esseri sotto le cui sembianze si nasconde la stregoneria, è una comunione d’intenti nella quale si prendono le misure dello spazio con distorti developpé delle gambe che salgono a novanta gradi o più in alto. Questi sono intervallati da spostamenti pseudo ballonzolanti, mentre i piedi slittano al suolo e da una parte la mano impegnata con il volatile dà risalto all’animale, che ora vola; l’altra ha invece la forma del becco ed è anch’essa parte di un linguaggio segreto tramandato di madre in figlia. Gli uomini credevano di liberarsi delle magare – vero nome delle guaritrici-avvelenatrici della Calabria a cui Marilungo si ispira – buttandole nel burrone; loro, invece, prendono il volo. E parlano la stessa lingua degli uccelli grazie ai fischietti-richiami, che ora tengono tra le labbra.

La metamorfosi e il volo
La tregenda si evolve in una riga unanime di fronte al pubblico, a ridosso della barriera di sale grosso, luogo preposto a un altro rito, quello del cristallo che viene espulso dalla bocca. Un momento interrotto dallo scuotimento del capo e delle chiome, che le conduce al centro per comporre un fermo immagine. Sono tutte adunate dietro la profetessa che emerge a braccia aperte, mentre con i suoi arti crea un’asta d’appoggio per tutti e cinque i corvi. Appare così, per qualche istante, un unico corpo di cotone bianco, con testa di fanciulla e cinque uccellacci a contrasto: una carta dei tarocchi. La composizione si frantuma e le quattro, inseparabili compagne dei loro spiriti guida, generano in un crescendo una danza sempre più bacchica fatta di rimbalzi, slanci e spirali, ma è solo il prodromo per un’ulteriore evoluzione. Una di loro fa da apripista e comincia a secernere nell’aria piume bianche, che accrescono sempre più insieme alla frenesia del movimento. Le cinque la imitano: sono tutte figlie di Apuleio e Ovidio, grandi narratori della metamorfosi. Diventano uccelli, volano. Ancora spirali, vortici e torsioni – in una nube di piumaggio che infesta il nero della scena – sono il motore cinetico per completare la trasformazione e liberarsi degli abiti, mostrando la pelle disegnata dalla candida lingerie. È così che le vediamo, con la custodia delle piume legata sulla pancia, nel momento di acme della festa che assume le sembianze saltellanti e i passi ripetitivi di una danza tecno-house, ibridata con la tarantella salentina (come le parole del rito-canzone che pronuncia Di Lecce).

La fine
C’è comunque il tempo per raffreddarsi e sfilare in una processione, una dietro l’altra, su più livelli: in piedi, rannicchiate, in equilibrio sulle natiche. La capofila dalla voce drammatica segna il percorso, conducendo con fatica in una spirale che occupa tutto il palco una grande borsa di cotone bianco, forse riarrangiata dalla federa di un cuscino, la quale, bucata sul fondo, lascia a terra la traccia dell’iconico sale. È lei che ha posizionato sulla testa un grande cristallo messo come un corno – altro simbolo della tradizione. Suoni, rumori e movimenti decrescono fino a scemare. Il rito è finito, ora bisogna prendersi un attimo per tornare al mondo e per scrivere davvero la parola fine, una volta che, riappropriatesi tutte del registro quotidiano, in una riga s’inchinano davanti al pubblico.

Un bianco pericoloso
Nel diario residenziale di Marilungo, nelle pagine redatte a San Vito dei Normanni tra il 2 e il 10 maggio 2025, leggiamo delle «striare, figure liminali che obbligavano i viandanti notturni a unirsi al loro ballo forsennato: «Balla balla niri e balla forte, ci scappi de sta danza nu ttorni cchiui de notte!». Sono le parole che sentiamo cantare da Vera Di Lecce durante la danza della metamorfosi. In questo caso è il ballo stesso a essere magico e mortifero. E per chi conosce e ama la storia della danza, questo riferimento a fanciulle candide ma vendicative, tutte un po’ copia una dell’altra, tutte sorelle con una regina-guida, non può risultare nuovo. Il richiamo implicito ma doveroso è agli atti bianchi del balletto romantico; quelli sovrannaturali che seguivano una prima overture terrena e di ambientazione rurale. Nello specifico, il pensiero va alle Villi del secondo atto di Giselle: gli spiriti delle donne morte con il cuore spezzato per mano di un uomo che le ha ingannate e tradite, venute in gran numero a vendicarsi, aggirandosi eteree intorno alle tombe, per attirare i loro omicidi e costringerli a ballare fino alla morte, prima che sorga il sole.

Quella metamorfica vendetta di colore bianco funzionò nel 1841 per i coreografi Jean Coralli e Jules Perrot, e funziona anche oggi. Crea una linea coreografica riflessiva che parla del femminile come luogo della marginalità e della follia. Non è una riduttiva scelta di colore, ma un denso lavoro sulla forma che, in questo spettacolo, emerge nel tutt’uno tra il mondo costruito dall’autore e la danza delle interpreti, che ne è diretta propagazione. Questi Cani lunari ci forniscono l’occasione, se la sapremo cogliere, di comprendere che non bastano il desiderio e la necessità per cimentarsi con la creazione artistica. Senza il ruolo formalizzante del pensiero, in qualsiasi direzione, in qualsiasi dose, in qualsiasi dimensione, non si va da nessuna parte. Si rimane incastrati in un mondo che si è incapaci di leggere o ci si auto-fagocita nel proprio egocentrismo con il malocchio addosso, senza riuscire a volare.
Matteo Merogno