Ammutinamenti 2025, primo giorno, tre danze in assolo. Murillo, Al Haber e Zaher

Álvaro Murillo, “8 km en mula” (foto di Emma Graziani)

Sono tutte danze di circa venti minuti quelle andate in scena nella prima giornata di Ammutinamenti, il festival di danza urbana e d’autore che animerà Ravenna fino a domenica 14 settembre. Tre danze genuine, ognuna modellata da un’idea circoscritta e manifesta: 8 km en mula di Álvaro Murillo, Fragmentation di Christophe Al Haber e Ancestral Echoes di Samer Zaher.

Tensione

Apre il programma Álvaro Murillo, che ancora prima di raggiungere il centro di Piazza San Francesco, complice anche il chiarore aranciato tardo-pomeridiano svettante sulla facciata della basilica, si è già calato nell’atmosfera tragica e andalusa della sua performance 8 km en mula. Tutto sembra comporsi in un quadro di folklore iberico: dalla sua mise con camicia di lino spiegazzata e aperta, abbinata ai pantaloni con la piega beige chiaro di cotone e alle scarpe da flamenco nere in pendant con la cintura, alla sua capigliatura folta quasi quanto la voluminosa barba, alla tavola di legno stretta e lunga all’incirca un metro, appoggiata senza vezzi sulla spalla, con la quale dal sagrato incede verso gli spettatori con lo sguardo basso, intenso e fisso.

Un cambré di Murillo durante “8 km en mula” (foto di Emma Graziani)

Il suo sguardo lo guida costantemente sin dalla camminata iniziale, risoluta e ondeggiante a causa delle scarpe da flamenco col tacco, per poi proseguire nella prima parte del pezzo, quando Murillo, deposta solennemente la tavola, ci sale liricamente sopra cimentandosi in dilatati cambrés, relevés e affondi; e fino alla parte centrale e finale. In questo momento il flamenco esplode nel tipico tripudio di schiocchi e braceo, accompagnato da musiche pregne di veloci giri di chitarra e voci di altri bailaores, e lo sguardo di Murillo è sempre denso e in tensione. Anche quando la danza divampa in un crescendo, la tensione dello sguardo non muta: è una costante.

Un relevé di Murillo durante “8 km en mula” (foto di Emma Graziani)

È questa tensione, che «conduce a» e «parla di» quelle Nozze di sangue – il racconto di García Lorca dal quale il performer ha tratto spunto – il perno di questo flamenco, che non lo fa assomigliare a una qualsiasi estemporanea danza di strada. Al contrario, gli fa assumere un carattere altro; ne fa la danza di un personaggio. Forse di colui che tornò al paese e raccontò di come il promesso sposo, tradito dalla fidanzata scappata con l’amante, massacrò nella notte la giovane coppia in fuga da 8 chilometri, o magari dell’assassino stesso, oppure della vittima. È lo sguardo esterrefatto di chi non ci può credere che sia successo veramente? Quello della vittima che vede avvicinarsi il suo persecutore? Non importa. Murillo in questo momento non è lui, non è qui; è in tensione verso un altro mondo: sta mettendo in scena una storia tragica e andalusa.

Contorcimento

La seconda danza ha luogo poco distante dalle Artificerie Almagià, nel parchetto “Deserto Rosso” dall’erba bassa, ma semi-incolta. Qui attende, immobile su un piedistallo quadrato con la testa china e le lunghe braccia pendenti ai lati (sì, è una statua, anche nel colore, complice il un make-up total body), Christophe Al Haber, giunto dal Libano grazie a “Solidarity in Motion”, il network di sostegno alla creazione per artisti di paesi in situazioni emergenziali, per mettere in scena il suo Fragmentation.

Longilineo e coperto solo da un pantalone ciclista elasticizzato e quasi bianco, non è afferrabile nell’immediato di quale tipologia di statua sia parente. In ogni caso, sicuramente più efebo greco che gargoyle medievale, la risposta diventa possibile in un secondo momento, quando Al Haber si abbandona al peso cosmico del suo cranio che continua a cadergli dalle mani, come un globo di onice di cui non si immagina la pesantezza. Il performer, sempre più coinvolto nel suo contorcimento, fino a rannicchiarsi inglobando il busto tra le cosce, lascia la sua postazione comfort per sperimentare il tappeto d’erba (il mondo).

“Fragmentation” di Christophe Al Haber (foto di Emma Graziani)

Qui, ancora una volta, il suo movimento non è in espansione. I suoi lunghi arti inferiori e superiori potrebbero portarlo a spiccare il volo, a mostrarsi nella sua imponenza; invece rimangono lunghissime ali-braccia sempre verticali, che diventano il sostengo per una posizione a quattro zampe insieme ai metatarsi dei piedi (e non alle ginocchia). Le sue movenze mentre annusa l’erba, si avvicina agli esseri sconosciuti che incontra (il pubblico) e si muove sinuoso a destra e sinistra, intervallando qualche rotolata, lo fanno emergere più come un mutante post-apocalittico di domani, piuttosto che come un australopiteco scimmiesco di ieri.

È finalmente qui, nel momento in cui si rialza in piedi, ancora corrucciato, con la testa china e le braccia tese all’altezza delle spalle, come a formare la lettere «T», che la natura del suo essere statua si disvela: egli ha la posizione di un Cristo nel momento del martirio, ma non nella sua versione biblica originale, esclusa anche per tonalità e allure. Si tratta di un martirio-sacrificio più vicino a noi, che converte il corpo di Al Haber in una di quelle statue congeniate per essere estrinsecazione (e quindi metabolizzazione) del dolore: il monumento ai caduti e alla memoria.

Sembra risiedere qui la rottura in pezzi che dà il titolo alla performance, come se l’artista, inscenando questa statua sofferente e creaturale, trovasse il modo di ricomporre l’esperienza del suo dolore. Ed è con questa intima consapevolezza che, dopo le proprie peregrinazioni danzate di cui sarà possibile concepire più maturi sviluppi, nel suo contorcimento, ritorna al proprio piedistallo.

“Fragmentation” di Christophe Al Haber (foto di Emma Graziani)

Vergogna

L’ultima performance avviene qualche passo più in là, sul piazzale antistante le Artificerie Almagià. È Ancestral Echoes di Samer Zaher – anche in questo caso un artista libanese sostenuto dal network “Solidarity in Motion”. Come per il connazionale Al Haber, anche per la piccola danza di Zaher si è trattato della messa in movimento di un’indagine nella propria intimità. «To whom I belong? I’m looking for my roots», dichiara la voce filtrata dal microfono ad archetto del danzatore libanese con origini indiane, bastardo e genderfluid («full packed» per sua specificazione), mentre si mostra con un turbante blu a disegni dorati, che ritornano anche sulla sciarpa-top arancione.

“Ancestral Echoes” di Samer Zaher (foto di Emma Graziani)

Questi connotati (abiti, sembianze, parole), resi espliciti, si sviluppano sia nel racconto delle discriminazioni subite durante l’infanzia all’orfanotrofio, dove non era concepito che un maschio amasse danzare e per questo veniva umiliato, sia nella rivendicazione della gioia di ballare, mai rinnegata. Zaher si esibisce così in danze tradizionali partendo da contorcimenti dei polsi che richiamano agli spirituali mudra, per poi sfociare in ancheggiamenti ritmati in stile bollywood o, oltre, in circonvoluzioni di vogueing, senza soluzione di continuità. Nel frattempo il turbante e la sciarpa sono diventati un’unica fusciacca intorno alla vita e Samer indossa solo dei boxer neri.

“Ancestral Echoes” di Samer Zaher (foto di Emma Graziani)

C’è ancora tempo per porre lo stesso interrogativo dell’inizio, ma questa volta verso il pubblico, alla seconda persona singolare o plurale: «Do you know your roots?». Lasciando la questione aperta, Zaher se ne va e ricompare in scena avvolto da una cappa-lenzuolo bianca, nei panni di una tribale dea della nascita mascherata che deposita un neonato in fasce davanti ai presenti e si allontana; inscenando così probabilmente, come nella parte centrale di uno psicodramma, l’evento del proprio abbandono.

“Ancestral Echoes” di Samer Zaher (foto di Emma Graziani)

In questo caso, al centro c’è il potente e forse mai abbastanza noto tema della vergogna, esplorato in una forma così privata da apparire quasi domestica, come a riprodurre quegli spettacolini che il performer improvvisava nell’orfanotrofio con una coperta-gonna legata in vita. Un’esibizione che ha allietato il pubblico e vissuta fino in fondo da Zaher, il quale, a ogni modo, avrà sicuramente l’occasione di esplorare come la forza artistica della danza possa plasmare e tramutare in altro anche i ricordi per l’individuo più soggettivi.

Matteo Merogno