Ammutinamenti 2025, “In transito”. Intervista a Francesca Serena Casadio e Christel Grillo

Francesca Serena Casadio e Christel Grillo (foto di Emma Graziani)

Incontriamo Francesca Serena Casadio e Christel Grillo, curatrici dell’edizione 2025 del festival Ammutinamenti, il primo giorno del “Laboratorio di giornalismo culturale e storytelling” organizzato da Altre Velocità, per una conversazione collettiva.

Il tema di quest’anno è “In transito”. Come l’avete scelto e perché?

Francesca: «“In transito” evoca una dimensione astrologica, il passaggio dei pianeti, il fatto che spesso le cose accadono in maniera enigmatica e non sempre riusciamo a spiegarcele. Ma il concetto richiama anche la dimensione individuale e collettiva che attraversiamo come comunità artistica, i corpi che passano e che possono influenzare la propria visione del mondo, il sentire dello spettatore, il suo modo più o meno consapevole di vedere le cose in base a quella che è la propria apertura e disponibilità, in quel momento, ad accogliere il lavoro artistico che si apre davanti ai suoi occhi. Le poetiche di transito che abbiamo selezionato per quest’anno sono molto ampie, dal momento che l’intera vita è un transito».

Il secondo weekend di Ammutinamenti ospiterà, come da tradizione, la “Vetrina della giovane danza d’autore”. Potete dirci qualcosa di più su questa sezione?

Christel: «Ammutinamenti è anche un contenitore di azioni della rete Anticorpi XL, di cui siamo capofila, tra cui la vetrina della giovane danza d’autore. Ospiteremo 14 lavori selezionati in modo collegiale da tutti i 38 partner della rete; è una sorta di festival dentro al festival».

Molto ricca è anche la sezione dedicata ai laboratori.

F: «Si tratta di esperienze gratuite e aperte a tutti; è un modo per cercare di coinvolgere la comunità di cittadini di ogni età. La sezione dei laboratori è nata dopo la pandemia del covid, che ci ha fatto totalmente disabituare alla vicinanza fisica, ed è stata molto apprezzata sin da subito. Questo ci dà anche un ritorno a livello di pubblico: spesso le persone, guardando le locandine e il programma del festival, non si azzardano ad avvicinarsi perché non sanno cosa sia la danza urbana e d’autore; hanno timore dell’ignoto e dell’esibizione artistica. Proporre dei laboratori è un modo per far cadere questa barriera e far abituare alla visione».

Qual è il vostro rapporto personale con la danza e come si riflette nella vostra direzione artistica del festival?

F: «Ho cominciato a studiare danza classica a 4 anni, impegnandomi con passione fino all’età di 12. L’ho abbandonata in adolescenza, quando cominciava a trattarsi di un impegno più oneroso, ma ho comunque continuato a frequentare alcuni workshop in giro per l’Italia per mio diletto, anche dopo l’università. Sono stata coinvolta in un’unica esperienza professionale, grazie alla quale ho compreso che stare sul palcoscenico non è una mia necessità. In compenso nel frattempo, anche lavorando per Ammutinamenti, mi sono appassionata al lavoro che c’è dietro al palcoscenico. Ho una personale predisposizione all’organizzazione, che è una risorsa imprescindibile per dirigere un festival e selezionare gli artisti da ospitare».

C: «La mia storia è simile. Anch’io fino al primo anno di università ho studiato danza a livelli accademici. Era l’attività che occupava la maggior parte del mio tempo, avendo anche cominciato a fare l’insegnante. In quel momento ho compreso che dovevo fare una scelta: concentrarmi sugli studi universitari o continuare a danzare. Influenzata da mia madre che mi consigliava di lasciar perdere, perché non sarei riuscita a farne un mestiere, mi sono focalizzata sullo studio laureandomi in mediazione linguistica. In seguito ho cominciato a lavorare ad Ammutinamenti, mettendo in campo la capacità organizzativa che è sempre stata un mio tratto costitutivo. Solo dopo, all’età di 32 anni, mi sono iscritta al Dams per colmare alcune lacune. Avevo maturato tanta esperienza sul campo sulle arti performative, ma sentivo la necessità di un supporto teorico».

Che rapporto avete con la critica di danza? E cosa ne pensate di quelle forme giornalistiche che a volte sembrano non distinguere tra recensione e promozione?

C: «La questione è complessa. Quando mi capita di essere spettatrice in altri contesti in giro per l’Italia, noto come i critici oggi sembrino essere meno presenti rispetto al passato. Mettendomi nei loro panni, penso che accada per quel senso di saturazione che si può raggiungere quando si assiste a molti spettacoli uno dietro l’altro durante tutto l’arco della giornata, con un inevitabile calo dell’attenzione. Io stessa noto questo meccanismo agire in me, quando da operatrice assisto a più spettacoli in un giorno. Non si può mantenere il medesimo stato di lucidità per tutto il tempo.
Dalla prospettiva di direttrice artistica, invece, penso che i critici siano particolarmente attenti alla nostra realtà. Alcuni tornano ogni anno, anche perché sono particolarmente affezionati al contesto. Per questo, devo ammettere che la mia opinione è più positiva, rispetto a ciò che ho riscontrato nei miei pellegrinaggi da operatrice-spettatrice in altri festival».

F: «Rispetto alle recensioni giornalistiche che sembrano quasi promozionali, ritrovo un riscontro: è vero, ci sono molteplici tipi di scrittura con finalità diverse e alcune di queste hanno sicuramente quell’impostazione. Ma c’è una grande differenza se si recensisce il contesto e si dà un opinione su un intero festival, oppure ci si focalizza sul singolo spettacolo. Quando leggo un articolo di danza, ciò che più mi colpisce quando si parla di un singolo spettacolo è la modalità di scrittura. Apprezzo molto gli articoli nei quali evinco un modo di scrivere che mi azzarderei a definire poetico, anche quando non stanno manifestando un esplicito apprezzamento per la performance. Quindi non è una questione di contenuto. La discriminante è più che altro la capacità di chi scrive di porsi nella giusta prospettiva di lettura del lavoro coreografico. Alcune critiche, invece, svolgono un’azione demolitrice nei confronti dello spettacolo, senza chiarire il punto di vista o la finalità: sono quelle più ancorate a vecchio modo di fare critica. Quando, invece, si scrive per restituire l’intero contesto del festival si può maggiormente dare voce alle sfumature più che ai fatti. Sono questi, a mio parere, i casi più interessanti, anche perché non tutti le colgono ed è bello quando accade».

intervista a cura di Matteo Merogno, Adriana Nasti, Ausilia Palmiteri